
Ogni venerdì mattina dalle dieci a mezzogiorno sospendo i confini della mia esistenza e li allargo a contenere quelle di giovani anime spezzate.
Ragazzi galleggianti sulle loro vite come derelitti di un naufragio inconcepibile, inaccettabile.
Mi reco in quella scuola carica di materiali, colori e buone intenzioni.
In un estremo tentativo di non perdere nessuno dei suoi scolari, il preside mi ha dato una stanza al primo piano. Ci sono i tavoli per lavorare, ma è anche piena di macchinari inservibili, vecchi, inutilizzabili e ingombranti. Nessuno li vuole e stanno lì. Un po’ come i miei giovani naufraghi del venerdì.
In quella stanza si lavora con i colori e con i materiali. Si fanno i collage e si tenta di ricomporre con leggerezza i pezzi segreti dell’anima.
Convinco quel gruppo di giovani alla deriva a lasciare fuori dalla porta, o magari a cuccia per un po’, il cinismo beffardo con cui taglieggiano chiunque cerchi di riportarli sulla retta via. Mostrano un sofferente orgoglio per la cattiveria delle loro vite e non sono disposti a liberarsene tanto facilmente.
Entro in quella stanza come in un santuario. Prego Dio di limitare la mia presunzione di guarirli, di salvarli. Prego Dio che sentano solo che io sono lì per loro. E basta.
Sono belli e non lo sanno.
Il gruppo è fluttuante, c’è chi viene e poi non torna più. Ma ci sono i sempre presenti.
Caterina sembra un pugile invincibile sempre pronto a combattere, ma ha il cuore in frantumi.
Mirko, che ama i bei vestiti e sogna una vita sulla moto, dentro ha paura della velocità.
Giovanni, sensibile come nessuno. Capace di prendersi i pesi degli altri sorridendo e ignorando deliberatamente i propri bisogni. Pagando così un prezzo altissimo che nessuno è in grado di sostenere a lungo.
Davide, senza casa, senza famiglia, figlio di una scopata e via. Sogna l’amore vero e sbruffone corteggia la sigaretta per sentirsi più duro.
E poi c’è Aldo che pratica lo sport del silenzio e della speranza. Paralizzato dalla violenza degli adulti. Dalle loro piccole esistenze. Prive di fede, di sguardi puliti e di braccia aperte.
Aldo non parla. Non risponde e gira la sua bella faccia dall’altra parte.
Aldo è in trincea. E si difende. Fa quello che può per sopravvivere alla paura di essere come loro. Come i suoi genitori e come gli adulti che ha incontrato e che incontra nella sua silenziosa esistenza. Vogliono che parli. Che si relazioni con gli altri. Ma lui è così che ha trovato il modo di anestetizzare il folle dolore e la cocente rabbia.
A volte indugia in un beffardo senso di soddisfazione quando qualcuno di questi volenterosi benpensanti allarga le braccia, scuote la testa e rinuncia al contatto con lui. Che poveri ridicoli esseri umani circolano nel mondo! Nessuno che osi starsene in silenzio accanto a lui. Senza chiedergli di parlare o di ascoltare o peggio ancora di essere quello che non è. Senza chiedergli di provare ciò che non può permettersi di provare.
Se fosse un drago sputafuoco allora si che aprirebbe bocca!
E con il fuoco distruggerebbe tutto e tutti. Meglio il silenzio dopo tutto che disegna intorno a sé un cerchio invalicabile.
Nei nostri venerdì mattina Aldo a volte mi parla, ma non lavora quasi mai. Tiene gli occhi bassi e le mani ferme. Sorride un poco, a volte, delle battute degli altri. Io, forse sbagliando, tocco appena il suo braccio passando dietro di lui. Voglio dirgli che ci sono. Che non mi importa se sta lì senza parlare e senza fare niente.
Sento tutto il suo disperato dolore e quello dei suoi compagni.
Un venerdì mi ha raccontato che lui sta tutto il giorno e tutta la notte sul deep web. Di fronte alla mia totale ignoranza si è sentito incoraggiato a spiegarmi che è quella parte di internet che è sommersa, che è invisibile ai più. Disegna un grosso iceberg con la punta che esce dalla superficie del mare. Nella parte sott’acqua scrive: assassini, droga, armi, pornografia, pedopornografia, terrorismo, commercio di organi e altro.
Rabbrividisco fingendo di non scandalizzarmi. Gli dico che in fondo lui è come un cercatore d’oro. Per trovare anche qualche piccola pepita bisogna scavare nel fango e stare a lungo con i piedi freddi e la schiena spezzata. Gli dico che a volte ne vale la pena.
So che lì non troverà nulla di prezioso, ma spero che si risvegli in lui il ricordo del desiderio del sacro, dell’incommensurabilmente santo. Il suo valore.
Gli chiedo come si sente dopo che ha passato del tempo a contatto con il profondo, oscuro inferno degli uomini. “ Male” mi dice “ma a volte meglio che se non ci vado”.
Immagino la sua disperazione quotidiana, perfino più dura di quell’orrore sommerso.
Vorrei abbracciarlo e stringerlo e portarmelo a casa e salvarlo. Ma non posso.
Vorrei che tutti loro potessero vedersi come li vedo io. Enormi eroi.
Mi faccio trovare lì ogni venerdì mattina, e questo è tutto ciò che posso fare per loro e per me stessa.